Lo sviluppo affettivo è la risultante dell’interazione dinamica dei processi maturativi, nella loro costante interazione con l’ambiente fisico e sociale. Le interazione di questi fattori determina le caratteristiche di ogni soggetto.

Nel tracciare i percorsi evolutivi delle emozioni, Sroufe riprende e rielabora quella che viene detta teoria della differenziazione. Questa teoria prevede che alla nascita sia possibile rintracciare nel piccolo solo uno stato emotivo indifferenziato che volge progressivamente in emozioni sempre più differenziate. Nel neonato sarebbe possibile distinguere uno stato di maggiore o minore eccitazione, una sorta di eccitamento generalizzato. Progressivamente, questa eccitazione si differenzierebbe in stati emotivi di sconforto e piacere, i quali evolverebbero, dopo i 3 mesi, nelle emozioni vere e proprie. Lo sconforto, per esempio, darebbe luogo alla collera, al disgusto, alla paura. Il piacere si differenzierebbe in giubilo. Sroufe fa però individuare sin dalla nascita tre percorsi principali distinti: il primo riguarda il sistema di piacere/gioia, il secondo il sistema della circospezione/paura, il terzo e sistema della frustrazione/rabbia. Ogni emozione, gioia, paura, rabbia, emerge attraverso stadi paralleli a quelli relativi allo sviluppo dell’intelligenza senso-motoria e ha origine da un precursore (il piacere, la circospezione, la reazione di frustrazione) che compare nei primi 5 mesi di vita e che costituisce il prototipo dell’emozione successiva. Questi precursori si sviluppano allora volta avendo come punto di partenza le reazioni precoci del piccolo a stati di attivazione più o meno prolungati. Sroufe nella sua teoria differenziale, ritiene che le emozioni possono essere definite a base innata. La loro espressione, infatti, avviene attraverso mimiche e posture che compaiono in tutte le società. Sroufe pone particolare attenzione ai processi cognitivi che accompagnano lo sviluppo delle emozioni. Non a caso possiamo parlare di emozioni vere e proprie solo a partire da questo mese di vita, ovvero sulla partire dal momento in cui compaiono, da un punto di vista cognitivo, progressi fondamentali nel concetto di oggetto, nel intenzionalità, nella comprensione della causalità, nella capacità di anticipazione e in quella di padroneggiare la realtà. Il ruolo della cognizione nell’assetto emotivo non è unidirezionale. Se da un lato i processi cognitivi guidano le emozioni, dall’altro le emozioni e lo sviluppo emozionale influenzeranno la cognizione, tanto che il riconoscimento di certi eventi e influenzato dalle stesse emozioni. Le emozioni possono dare inizio, indirizzare o interrompere l’elaborazione delle informazioni o portare ad una sorta di elaborazione selettiva di esse e far cogliere,quindi, certi elementi e non altri o far emergere dalla memoria certe informazioni piuttosto che altre. Questo processo bidirezionale è tanto più evidente se si tiene presente che la dialettica tra emozione e cognizione avviene all’interno delle relazioni sociali. Le emozioni provate dal bambino all’interno delle sue relazioni affettive primarie possono dare significati diversi agli eventi e ai contesti in cui è inserito.

È stato John Bowbly a richiamare l’attenzione sul ruolo della madre nell’organizzazione emozionale del piccolo e sulla funzione particolare del legame affettivo madre bambino ai fini dello sviluppo delle competenze sociali e dell’autonomia. Bowbly affermò che il legame madre-bambino è il risultato di un sistema di schemi comportamentali a base innata, il cui significato adattivo va rintracciato nella protezione  dai predatori e dai pericoli, offerta al piccolo, nel nostro ambiente di adattamento evoluzionistico da chi più si prendeva cura di lui, vale a dire la madre. A differenza di Freud, Bowbly riconduce l’attaccamento alla madre ad una motivazione intrinseca, primaria, basata sulla necessità del bambino di stabilire lo stretto contatto fisico con questa figura. Comportamenti come piangere, aggrapparsi, sorridere, detti comportamenti di attaccamento, vengono considerati da Bowbly come schemi pre-programmati, che compaiono e si sviluppano in quanto favoriscono prossimità e contatto con la madre e, quindi, in termini biologici, aumentano le probabilità del piccolo di sopravvivere e di lasciare a sua volta una discendenza. Ugualmente è pre-programmata la sensibilità ai segnali del figlio da parte della madre, la sua capacità di decodificare il tipo di pianto, la sua propensione ad accorrere con prontezza quando il piccolo sembra aver bisogno di lei. È pre-programmata, infine, la tendenza della madre a farsi incantare dal sorriso del figlio, a rimanere accanto a lui, a prenderlo in braccio e a parlargli. Queste predisposizioni sono rimasta nel patrimonio genetico degli individui della nostra specie a seguito della selezione naturale. Erano infatti le più adatte ad assicurare, tramite la sopravvivenza della prole, il successo riproduttivo della madre stessa. Per Bowbly, prendere in braccio il proprio piccolo che piange non si configura come rinforzo e non è un comportamento che condiziona il piccolo rendendolo viziato. Si tratta piuttosto della risposta più adeguata ad un segnale di disagio.

Per Freud, come del resto anche per Bowbly, la relazione madre-bambino è unica, senza paralleli, tale che una volta stabilita si mantiene inalterabile come la prima e più forte relazione d’amore, e come il prototipo di tutte le successive relazioni d’amore. Ma, a differenza di Bowbly, Freud ritiene che l’affetto del bambino per la propria madre sia determinato da una motivazione secondaria derivante dal fatto che è questa figura provvedere ai suoi bisogni fisiologici di alimentazione e pulizia, diventando progressivamente anche l’oggetto privilegiato su cui il piccolo può scaricare libri di aggressività. Freud delineava lo sviluppo affettivo, o per meglio dire lo sviluppo psico sessuale dell’individuo dalla nascita alla maturità, in termini di una successione di stati. La pulsione libidica e quella aggressiva si manifestano già nel neonato, in quella che Freud chiama fase orale, fase in cui le gratificazioni sessuali sono ottenute attraverso la bocca e le labbra, durante l’allattamento, attraverso la suzione del capezzolo materno. L’aggressività, centrale nella libido, si può manifestare mordendo il capezzolo. Alla fase orale segue la fase anale, in cui piacere libidico è legato alla ritenzione o all’espulsione delle feci. Dai 3 ai 5 anni il bambino attraversa la fase fallica, caratterizzata da una forte interesse sessuale per i propri genitori ed alla scoperta  da parte delle femmine della loro assenza. In questo periodo il bambino elabora quello che viene detto complesso di Edipo, costituito da fantasie desideri incestuosi per il genitore dell’altro sesso e da una forte rivalità e gelosia per il genitore dello stesso sesso. Il superamento di questo complesso costituisce un punto centrale nello sviluppo della personalità. Esso avviene, nel maschio, altra verso la paura dell’evirazione, complesso di castrazione da parte del padre/rivale, del quale teme la vendetta per aver trovato desiderio sessuale verso la madre. Ha inizio così un processo di identificazione con il padre, prima odiato e ora ha preso a modello di virilità e di acquisizione di un identità sessuale è di genere appropriata. Per quel che riguarda la femmina, la  constatazione di non avere un pene la porta, prima ad innamorarsi del padre e a desiderare di avere da lui quel fallo che le manca, ponendosi così in rivalità con la madre, e in seguito a superare rivalità e amore incestuoso, identificandosi con essa. Dai 6 agli 11 anni c’è una fase di latenza. La libido riemerge con forza nella fase genitale che caratterizza l’adolescenza.

Le tecniche psicologiche maggiormente utilizzate per lo studio dello sviluppo affettivo di un bambino sono: il test del disegno della figura umana della Machover, il test del disegno dell’albero di Kock e il test del disegno della famiglia di Corman.

La teoria dell’attaccamento è oggi utilizzata come riferimento per la clinica e la ricerca in psicologia dinamica, ma anche per la psicologia dell’età evolutiva e per la terapia familiare. Numerosi sono i risvolti applicativi della teoria dell’attaccamento che ha toccato i campi della psicologia generale, dello sviluppo e della psicopatologia. La teoria dei modelli operativi interni di Bowbly si è rivelata fondamentale nella pratica clinica non solo con i bambini, ma anche con adolescenti e adulti. Tutte le ricerche concordano che uno stile di attaccamento disorganizzato può evolvere in gravi disturbi di personalità. Inoltre, studi recenti si sono concentrate sull’ipotesi che la depressione infantile si è in stretta relazione con disturbi dell’attaccamento alla figura genitoriale. Si ritiene, inoltre, che i disturbi d’ansia possono essere legati a uno stile di attaccamento insicuro-ambivalente.